di Maurizio Ceccaioni
Eravamo quasi coetanei e la Chiesoletta – l’oratorio San Filippo Neri alla Garbatella – era il nostro ritrovo pomeridiano. Accanto il Columbus detto anche “il pidocchietto”, cioè il cinema parrocchiale dove ci immedesimavamo negli eroi del west o dei film storici. Agostino veniva da Tor Marancia “oltre confine”, il quartiere dei nostri “nemici”. Perché rifacendoci alle avventure descritte su uno dei libri più letti tra i marmocchi di allora – I ragazzi della via Pal – da una parte c’eravamo noi e dall’altra gli “Sciangaini”, come chiamavamo quelli delle case popolari oltre la via Cristofaro Colombo. Ma Agostino veniva da una zona di media borghesia, un po’ più a valle, che confinava con l’allora Fiera di Roma: quella di Piazza Lante, che oltre ad essere anche il capolinea dell’ex bus “93X”, aveva di fronte il campo più importante della zona: L’Omi (Ottica Meccanica Italiana), vivaio per molte promesse calcistiche romane, tra cui ovviamente Di Bartolomei.
Che fosse un campione già da piccolo le sapevamo bene tutti noi, perché nelle sfide a pallone tenute sotto controllo da Padre Guido, lui era sempre un leader. Parroco, arbitro e per molti di noi, educatore morale e sociale, Padre Guido teneva sotto controllo con polso fermo e orecchie aperte, quella masnada di ragazzini che confluiva di pomeriggio all’oratorio per dare qualche calcio al vecchio pallone o farsi una partita a “calcio balilla”, con quei bigliardini molto artigianali, dove i calciatori montati su manici di scopa erano fatti in compensato. Un prete con il dono dell’educatore, che aveva una parola per tutti anche dopo un richiamo bonario e la conseguente punizione per una parolaccia o un comportamento sbagliato, come fare dei giri di campo o salire su una delle tre pertiche di ferro oltre la recinzione del campetto.
Il piccolo Agostino giocava con gli “Atomi”, notoriamente la squadra che era sotto l’ala protettiva di Padre Guido. Erano gli anni in cui dalle prime trasmissioni televisive disponibili a chi possedeva un Tv, si apprendevano dai telecronisti termini inglesi mutuati poi nel calcio di periferia. Così il “Free Kick” – il rinvio da fondo campo che avevamo romanizzato con il termine “frichicche” – era un continuo motivo di contestazione quando in campo c’era Lui. Infatti, Ago “sparava” il pallone direttamente nella porta opposta, attraversando quel campetto lungo circa 60 metri e facendo un inutile goal. Però costringendo il nostro arbitro circondato da marmocchi vocianti, ad intervenire ammonendo bonariamente Agostino dal non farlo più.
Poi fu il tempo del calcio più serio e dopo l’Omi Ago passo tra i ragazzi della Roma. Ci ritrovammo di fronte allo stadio Flaminio durante una partita degli Allievi romani: lui col numero 10 e io col 4. Scherzando gli chiesi di non farmi correre troppo e lui ridendo mi disse che non ci pensava proprio. Infatti, a correre fu la palla, ma mi mandò al manicomio con le sue finte.
Un ragazzo schivo, educato, di poche parole, che sembrava sempre ingrugnito, ma riflessivo e concreto quando serviva. In campo aveva sempre il pallone tra i piedi e la testa alta a guardare i compagni, pronto a metterli in azione con i suoi lanci millimetrici. L’ultima volta che lo vidi era diventato da tempo un calciatore affermato e capitano della mia Roma. C’era stata una sospensione del campionato (forse per la nazionale) e Agostino venne al campo della Fiera di Roma dove giocava il Garbatella, abbracciato da tutto il suo pubblico dei tifosi. Poi le alterne vicende dopo lo scudetto dell’83, i dissensi con la dirigenza della squadra e la cessione al Milan al seguito di Liedholm, il Cesena e la Salernitana. Ancora giovane, come nel suo stile, lasciò in silenzio quel mondo di quel calcio che gli diede allori e cenere.
Quel giorno, il 30 maggio del 1994, stavo parlando con i miei colleghi dell’ufficio stampa Enel quando d’improvviso fece irruzione Gianni, un collega che seguiva le notizie delle agenzie stampa, dandoci la notizia del suicidio del nostro campione. Lo sgomento ci prese tutti, quello stesso che ancora oggi – a distanza di tanti anni – ci assale al solo pensiero di quest’uomo/ragazzo, forse lasciato solo da chi – oltre alla sua famiglia – lo avrebbe potuto aiutare. Trent’anni fa Ago metteva fine alla sua vita con un colpo di pistola: aveva 39 anni, una moglie e un figlio, ma per qualche ragione ai più ignota, si era stancato della vita.
Tempo fa, sulla scia dei ricordi, ho acquistato su Amazon un piccolo libro su Di Bartolomei titolato “Chiedi chi era Agostino”, scritto da Mauro De Cesare, un giornalista sportivo che lo ha conosciuto bene e ne ha tracciato le sua breve vita attraverso i ricordi di amici e colleghi, che con lui hanno calpestato l’erba del vecchio Olimpico, quello delle Olimpiadi di Roma 60.